Aforismi e frasi di Ivan Goncharov - Oblomov
Ma qual è, secondo te, l’ideale della vita? Che cosa non è oblomovismo?», chiese titubante e senza entusiasmo. «Forse non aspirano tutti a quello che io sogno? Ma via!», aggiunse più ardito. «La meta finale di tutto il vostro correre di qua e di là, delle vostre passioni, delle vostre guerre, dei vostri traffici e della vostra politica, non è forse la tranquillità, non è l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?».
«Ah, questo è il prezzo del fuoco di Prometeo! Non basta sopportare, bisogna anche amare questa tristezza, bisogna rispettare questi dubbi e i problemi: essi sono la sovrabbondanza, il lusso della vita e appaiono soprattutto quando si è all’apice della felicità, quando non si hanno più rozzi desideri. Essi non assillano una esistenza comune: non entrano dove c’è dolore e bisogno; le masse ignorano questa nebbia di dubbi, questi interrogativi angosciosi… Ma per coloro che li hanno incontrati al momento giusto, non sono un peso, ma ospiti graditi».
«Quando non si sa perché si vive, si vive così, come capita, un giorno dopo l’altro; ci si rallegra che sia passata una giornata e sia arrivata la notte, e si affoga nel sonno il tedioso interrogativo: perché si è vissuto oggi, perché si vivrà domani?».
«Ah, se si potesse sentire solo il tepore dell’amore senza provarne i travagli!», fantasticava. «Ma no, la vita ti tocca dovunque ti rifugi, ti brucia! Come ad un tratto si è mossa, e riempia di occupazioni! L’amore… è un’ardua scuola di vita!».
«No, Andrej, non ricordarmi nulla… non cercare di farmi rivivere il passato, di smuovermi, ti prego!», lo interruppe serio Oblomov. «Tutto questo mi fa male, non mi è di conforto. I ricordi, o sono poesia sublime quando sono ricordi di una felicità viva, o sono un dolore cocente quando riguardano una ferita appena rimarginata… Parliamo d’altro. Già, non ti ho ringraziato per le cure che ti sei preso dei miei affari, in campagna. Amico mio! Io non posso, non ne ho la forza; cerca la gratitudine nel tuo proprio cuore, nella tua felicità… In Ol’ga… Sergeevna, perché io… io… non posso! Perdonami se finora non ti ho liberato da queste noie. Ma presto sarà primavera, e io andrò senz’altro a Oblomovka…».
«Quando tutte le forze del suo essere si metteranno in moto, allora la vita le si desterà intorno, e vedrà cose che oggi i suoi occhi non vedono, sentirà cose che oggi non le è dato di sentire: la musica dei suoi nervi, il rombar delle sfere, tenderà l’orecchio al fruscio del crescere dell’erba. Aspetti, non abbia fretta, verrà da sé», la ammoniva.
«Ah, questo è il prezzo del fuoco di Prometeo! Non basta sopportare, bisogna anche amare questa tristezza, bisogna rispettare questi dubbi e i problemi: essi sono la sovrabbondanza, il lusso della vita e appaiono soprattutto quando si è all’apice della felicità, quando non si hanno più rozzi desideri. Essi non assillano una esistenza comune: non entrano dove c’è dolore e bisogno; le masse ignorano questa nebbia di dubbi, questi interrogativi angosciosi… Ma per coloro che li hanno incontrati al momento giusto, non sono un peso, ma ospiti graditi».
La sua vita si era andata colmando così quietamente e inavvertitamente per gli altri, che le era dato muoversi nella sua nuova sfera senza risvegliare l’attenzione, senza slanci e agitazione visibili. Agli occhi della gente faceva tutto come prima, ma in modo diverso. Quando andava al teatro francese, scopriva nella trama della commedia un rapporto con la sua vita; se leggeva un libro, trovava sempre delle righe che riflettevano lo scintillio della sua mente; qui balenava la fiamma dei suoi sentimenti, là erano scritte parole dette il giorno prima, come se l’autore fosse stato lì ad ascoltare i battiti del suo cuore.
«La vita è un dovere, e per conseguenza anche l’amore è dovere: per me, è come se me l’avesse mandato Iddio», concluse con gli occhi volti al cielo, «ordinandomi di amare».
Benché l’amore sia considerato un sentimento capriccioso, incontrollabile, che nasce come una malattia, ha anch’esso però, come tutto, le sue leggi e le sue cause. E se fino ad ora queste leggi sono state poco analizzate, ciò è dovuto al fatto che chi è colpito dall’amore ha ben altro da fare che osservare con occhio di scienziato in qual modo l’impressione penetri nell’anima, incatena i sensi quasi col sonno, e come da principio rende ciechi, e come da quel momento il polso, e appresso a lui il cuore, incomincia a battere più forte, e come all’improvviso nasce la devozione fino alla tomba e l’aspirazione a sacrificare se stessi, come a poco a poco il proprio io scompare soppiantato da lei o da lui, come il cervello diventa eccezionalmente ottuso o eccezionalmente acuto, come la volontà propria cede alla volontà altrui, e la testa si piega e i ginocchi tremano e compaiono le lacrime, la febbre…
«Lo vedi, non lo sai neanche tu. Là, invece, pensa un po’: vivrai dalla mia comare, una donna gentile, nella pace e nel silenzio; nessuno che ti disturbi; niente rumori, niente baccano, tutto pulito, ordinato. Guarda come vivi adesso: proprio come in una locanda, eppure sei un signore, un possidente! Là, invece, pulizia, silenzio; e hai la possibilità di scambiare una parola con qualcuno, se ti annoi. Tranne me, non verrà nessun altro a trovarti. Ci sono due ragazzini: potrai giocare con loro quanto ti pare! Che altro vuoi? E poi il vantaggio, il vantaggio che ne ricavi. Quanto paghi qui?».
Forse, più di una volta l’occhio di un intenditore si sarebbe acceso di desiderio alla vista di questo o quel quadro, di questo o quel libro ingiallito dal tempo, di una vecchia porcellana, di una pietra, di una moneta. Ma fra quei mobili e quei quadri d’epoca diversa, fra quelle paccottiglie che non significavano nulla per nessuno, mentre a loro due ricordavano un’ora felice, un istante memorabile, in quell’oceano di libri e di spartiti, aleggiava un tepido soffio di vita, qualche cosa che stimolava l’intelletto e il senso estetico; dovunque si sentiva il pensiero vigile o sfolgorava la bellezza dell’attività umana, come tutto intorno sfolgorava l’eterna bellezza della natura.
«Perché ha un bene più prezioso di qualsiasi intelligenza: un cuore onesto e fedele!
«Io so che l’amore è meno esigente dell’amicizia», disse Stolz. «Spesso è anche cieco, e non si cura dei meriti: è sempre così. Ma per l’amore occorre qualcosa di speciale, a volte un’inezia, qualcosa che non si può definire né qualificare, e che il mio impareggiabile ma goffo Il’ja non possiede. Ecco perché mi stupisco. Mi dia ascolto», proseguì vivacemente, «non riusciremo mai a venirne a capo, non ci comprenderemo mai. Non si vergogni dei particolari, non si risparmi per una mezz’ora, mi racconti tutto, e io le dirò che cosa è stato e anche, forse, che cosa sarà… Continuo a credere che ci sia stato… qualcosa che non… Ah, se fosse vero!», aggiunse con trasporto. «Se fosse Oblomov, e non un altro! Oblomov! Significherebbe che lei non appartiene al passato, a un amore, che è libera… Mi racconti, su, mi racconti!», concluse con voce calma, quasi allegra.
Sono questi i momenti di quiete solenne e universale della natura, i momenti in cui più intenso è lo sforzo creativo dell’intelletto e i pensieri poetici ribollono con più fervore, in cui nel cuore si accende più viva la passione o la malinconia si fa più acuta, in cui nell’anima crudele matura più spietato e violento il germe di un proposito malvagio, in cui… a Oblomovka tutti dormono un sonno profondo e tranquillo.
Egli non si era mai soffermato a valutare quale peso potessero avere parole come bontà, verità, purezza, gettate nella corrente delle conversazioni, quali profonde svolte esse potessero imprimervi; non pensava che ognuna di queste parole, dette con voce forte e chiara, senza false vergogne, ma con coraggio, non viene sommersa dalle urla dissennate dei satiri mondani, ma s’immerge come una perla, nel profondo abisso della vita sociale e trova sempre la sua conchiglia.
«Cosa gridi? Lo griderò io a tutto il mondo che sei un imbecille, una bestia!», sbraitò Tarant’ev. «Io e Ivan Matveeviè ci siamo presi cura di te, ti abbiamo usato mille riguardi, ti abbiamo servito come schiavi, abbiamo camminato in punta di piedi, ti abbiamo guardato negli occhi per cercare di prevenire i tuoi desideri, e tu lo hai messo in cattiva luce con i superiori: adesso è senza posto e senza un pezzo di pane! È una cosa meschina, abbietta! Tu adesso gli devi dare metà dei tuoi beni; firma una cambiale a suo favore. Adesso non sei ubriaco, sei in sentimenti, firmala ti dico; se no, non me ne vado…».
«Quando non si sa perché si vive, si vive così, come capita, un giorno dopo l’altro; ci si rallegra che sia passata una giornata e sia arrivata la notte, e si affoga nel sonno il tedioso interrogativo: perché si è vissuto oggi, perché si vivrà domani?».
Era stato l’istinto a fargli conservare, da giovane, la freschezza delle sue forze; ma presto aveva scoperto che questa freschezza dà ardire e allegria, ed è la base di quella virilità in cui l’anima deve temprarsi per non impallidire di fronte alla vita, quale che essa sia, e per poterla invece guardare non come un pesante giogo o come una croce, ma solo come un dovere, come una degna avversaria contro cui ingaggiare la lotta.
«Sai, Andrej, nella mia vita non si è mai divampato un fuoco, salvatore o distruttore che fosse. Essa non è stata, come per gli altri, simile a un mattino, che a poco a poco si accende di colori e di luce e si trasforma in un meriggio ardente, in cui tutto ribolle e vibra, e poi, sempre più calmo e pallido, smuore nella sera. No, quando la mia vita è cominciata, era già al tramonto. È strano, ma è così! Dal primo momento in cui ho avuto coscienza di me stesso, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi redigendo le scartoffie della cancelleria; ho continuato a spegnermi apprendendo dai libri verità delle quali non sapevo come servirmi nella vita; mi sono spento tra gli amici, davanti alle ciarle, ai pettegolezzi, alle punzecchiature, alle chiacchiere fredde e cattive, alla loro futilità, vedendo come l’amicizia fosse tenuta su da incontri senza scopo, senza simpatia; mi sono spento e ho dissipato le mie forze con Mina, alla quale ho dato oltre la metà delle mie entrate credendo di amarla; mi sono spento nelle malinconiche e indolenti passeggiate sulla Prospettiva Nevskij fra pellicce d’orso e baveri di castoro, nelle serate, ai ricevimenti, dove mi si accoglieva cordialmente come un partito non disprezzabile; mi sono spento e ho sprecato in bagattelle la mia vita e la mia intelligenza trasferendomi dalla città in villa, dalla villa a via Gorochovaja, riconoscendo la primavera dall’arrivo delle ostriche e delle aragoste, l’autunno e l’inverno dai giorni fissi di ricevimento, l’estate dalle passeggiate… ho sprecato tutta la vita in una pigra e tranquilla sonnolenza, come gli altri… Anche l’amor proprio, per che cosa l’ho speso? Per ordinare abiti a un sarto di grido?
«Ah, questo è il prezzo del fuoco di Prometeo! Non basta sopportare, bisogna anche amare questa tristezza, bisogna rispettare questi dubbi e i problemi: essi sono la sovrabbondanza, il lusso della vita e appaiono soprattutto quando si è all’apice della felicità, quando non si hanno più rozzi desideri. Essi non assillano una esistenza comune: non entrano dove c’è dolore e bisogno; le masse ignorano questa nebbia di dubbi, questi interrogativi angosciosi… Ma per coloro che li hanno incontrati al momento giusto, non sono un peso, ma ospiti graditi».
Non fa mai un movimento di troppo. Se si mette seduto, siede tranquillo; se fa qualcosa, i suoi gesti si limitano al minimo indispensabile. Come nel suo organismo non c’è niente di superfluo, così nell’esercizio delle sue facoltà morali egli cerca un equilibrio fra il lato pratico e le sottili esigenze dello spirito. L’uno e le altre camminano paralleli, talvolta si incrociano e si intrecciano lungo il cammino, ma non formano mai nodi ingarbugliati e inestricabili.
Il tempo delle allusioni simboliche, dei sorrisi densi di significato, dei ramoscelli di lillà, era irrevocabilmente passato. L’amore diventava più severo, più esigente, si stava trasformando in una specie di impegno che comportava diritti reciproci. I due si aprivano ogni giorno di più: i malintesi, i dubbi scomparivano o lasciavano il posto a interrogativi più chiari e concreti.
«Suvvia, smettila! L’uomo è stato creato perché possa organizzare la propria vita e addirittura modificare la propria natura; è lui che si lascia crescere la pancia e pensa che sia stata la natura a mandargli quel fardello! Tu avevi le ali, ma te ne sei disfatto».
Oblomov era scosso dai singhiozzi, s’infiammava, si sentiva mancare, a stento tratteneva le lacrime, e ancor più faticava a soffocare il grido di gioia che gli voleva erompere dall’anima. Da quanto tempo egli non sentiva in sé tanta gagliardia, tanta forza che sembravano salirgli dal fondo dell’anima, pronta a grandi gesta.
«Tutto questo non è necessario, nessuno lo pretende! Perché sacrificarmi la vita? Fai quello che devi fare. Sono gli scaltri che offrono sacrifici inutili o irrealizzabili, per non fare quelli necessari. Tu non sei scaltro, lo so, ma…».